TASHI DELEK!
Viaggio spirituale e avventuroso tra il bianco candido e lo sconfinato silenzio della catena Himalaiana e dei suoi altopiani, i colori sgargianti delle bandierine di preghiera intrecciate sui passi montani e l'odore forte del burro di yak e il ritmo cantilenare dei mantra di preghiera nei tanti monasteri buddisti nascosti tra le rocce...
Viaggio spirituale e avventuroso tra il bianco candido e lo sconfinato silenzio della catena Himalaiana e dei suoi altopiani, i colori sgargianti delle bandierine di preghiera intrecciate sui passi montani e l'odore forte del burro di yak e il ritmo cantilenare dei mantra di preghiera nei tanti monasteri buddisti nascosti tra le rocce...
PICS
12 luglio 2016. Il volo della Sichuan Airlines, partito da Kathmandu con 4 ore di ritardo, atterra all'aeroporto di Gongkar (Lhasa) ad un' altitudine di 3650 mt slm., quando oramai è pomeriggio inoltrato.
Dopo gli interminabili e metodici controlli della polizia cinese, io e i miei compagni di viaggio ci ritroviamo nella hall dell'area arrivi dell'aeroporto, con i passaporti e il visto sequestrati, in attesa che la nostra guida tibetana ci raggiunga, che confermi ai militari il nostro tour organizzato e ci porti finalmente fuori in terra tibetana.
Lhakpa, un ragazzo tibetano di circa una trentina d'anni, inspiegabilmente alto, con un inglese abbastanza fluente ma a tratti comprensibile con tanta tanta fatica, sarà la nostra guida per tutta la permanenza in Tibet e ci raggiunge insieme a Sonam, un altro simpatico e sempre sorridente ragazzo tibetano, bassino e grassottello, che non sa una parola di inglese, ma che diverrà il nostro fidato e attento autista.
Fuori dal terminal ci attende un grigio e seminuovo pulmino 9 posti della Hyundai, il nostro affidabile mezzo di locomozione per tutta la durata del tour.
In un paio d'ore di strada, a sera inoltrata, arriviamo nella cittadina di Tsetang e ci fermiamo a dormire presso il Tibet Yulong Holiday Hotel.
GIORNO 1: La mattina seguente ci attende la ricca colazione in stile orientale: tutta la sala da pranzo è intrisa del forte odore di brodo, uova, spezie, tè tibetano e verdure in padella (odore per me nauseabondo a quell'ora del mattino), il tutto accompagnato da una musica in stile indiano lamentosa e ripetitiva.
Tutto questo, associato all'altitudine e al fuso orario ancora da metabolizzare, mi ha indotto a saltare quasi del tutto il mio primo pasto in terra tibetana....
La prima tappa è stata quella al Monastero di Yumbulagang, in posizione privilegiata e panoramica, letteralmente arroccato su un ripido promontorio dal quale si gode una vista stupenda della vallata dello Yarlung circostante. E' il più antico tra i monasteri ed è uno di quelli che ho apprezzato di più, sia per il contesto nel quale sorge sia per l'architettura "svettante e slanciata" che si integra perfettamente al paesaggio. L'odore dell'incenso bruciato nei piccoli stupa esterni e le candele di burro di yak nell'interno; le "preghiere ruotanti" (come le chiamavo io...) quei cilindri dorati posti in fila lungo i muri che si fanno girare nel rito della preghiera durante l'avvicinamento all'ingresso del monastero (chokhor o ruota della legge), i monaci raccolti in preghiera, le statue del Buddha dorate e piene di offerte di frutta cibo o banconote e la stanza con gli scritti antichi buddisti mi sono rimasti ben impressi in mente.
Quindi ci siamo diretti al Monastero di Trandruk (nome che deriva dal mito del re che dovette assumere le sembianze di falco - tra - per sconfiggere il drago - druk), probabilmente il primo tempio costruito in Tibet, dove alcuni erano seduti a terra ad impastare burro di yak e carne (Tsampa) a creare delle "polpette" a punta simili agli arancini che poi vengono colorati per metà di rosso e messi su dei vassoi votivi per le divinità buddiste.
Infine abbiamo raggiunto il Monastero di Samye, ampia struttura centrale con piazza antistante all'interno di un parco circolare immerso tra le dune di sabbia e le montagne, che ospita 3 grandi stupa colorati (verde rosso e nero). E' il primo monastero buddista costruito in Tibet. Mi sono rimasti impressi i tanti lavoratori che si aggiravano nel parco intenti nei lavori di restauro e la grandezza dell'area con la geometrica distribuzione degli stupa che conferisce al posto un'atmosfera quasi magica.
In serata, dopo 3 ore di pulmino, siamo arrivati a Lhasa e abbiamo soggiornato presso il Mandala Hotel, buona sistemazione con camere accoglienti e pulite, in posizione semicentrale a 10 minuti a piedi dalle diverse attrazioni. Ottimo anche il Mandala Restaurant proprio sotto l'hotel, dove il servizio è veloce economico e di qualità e il menù e anche in inglese.
Consiglio la tagliata di yak servita su una specie di pietra ollare calda insieme a patate fritte e noodles!
GIORNO 2: Mattinata trascorsa in visita al bellissimo Monastero di Drepung, il più grande monastero del Tibet che sorge a 3900 mt di altitudine ed è formato da tante costruzioni bianche incastonate ed arroccate tra le rocce del costone della montagna (drepung mucchio di riso proprio per il tipo di architettura). La scuola di Drepung offriva il livello più alto di istruzione nei settori della filosofia e della teologia del Buddismo tibetano.
Non siamo riusciti invece a visitare il vicino Monastero di Nechung (la residenza dell'oracolo di stato e sede di esorcismi) in quanto quel giorno era una ricorrenza sacra e c'era una fila di fedeli interminabile!(una cosa da non crederci, mai vista tutta quella gente stipata in fila sotto il sole...centinaia di metri uno dietro all'altro....saranno state 6-7 ore di fila! peggio che alla coda per lo stand del Giappone ad Expo Milano!)
Il pomeriggio abbiamo raggiunto il centro di Lhasa e ci siamo dedicati alla visita del tempio di Jokhang che è il luogo senza dubbio più sacro e sorge nel cuore del centro tibetano, nel dedalico ed affollato quartiere spirituale e commerciale di Lhasa, il Barkhor. La piazza antistante il tempio è teatro di genuflessioni preghiere ed inginocchiamenti vari e di donne tibetane che tentano di venderti collane o similari. Il tempio è ampio, sorge su due piani ed è pervaso dell'odore nauseabondo del burro di yak e della nenia dei mantra tibetani recitati dai pellegrini che compiono la kora delle varie stanze.
Attraverso un tour a piedi nel centro storico di Lhasa, passando anche per il popoloso e vivo quartiere musulmano, abbiamo raggiunto il Monastero femminile di Ani Sangkhung, dove le donne, oltre a studiare e pregare in quanto monaci, si dedicano con cura attenzione e delicatezza propria del genere, alla pulizia e alla cura del monastero che, senza alcun dubbio, è stato il più pulito e conservato fra tutti quelli visitati, pieno di piante in fiore e profumo di cibo (si percepiva benissimo l'evidente gusto del tocco femminile!).
Dopo una meritata birra locale (Birra Lhasa) e la solita gustosa cena al Mandala Restaurant, abbiamo concluso la serata ammirando lo svettante splendore del Potala Palace avvolto dalle tante luci in versione notturna.
GIORNO 3: Visita al Monastero di Sera, grande complesso monastico che sorge su una collina poco fuori Lhasa ed è uno dei più grandi monasteri buddisti del Tibet (insieme a Ganden e Drepung). Il complesso era in corso di intensa e fervida ristrutturazione e sotto il grande patio vicino all'ingresso tante donne e bambini pregavano con le reiterate e faticose genuflessioni.
Pranzo veloce in una locanda, piccola e dall'igiene sicuramente discutibile ma tremendamente tipica e vera, dove ho divorato degli ottimi chow mein con erba cipollina e arachidi accompagnati da salsa di soia e ho tentato di immergermi appieno nei gusti e nelle usanze locali bevendo lo stucchevole tè tibetano. La prima parte del pomeriggio l'abbiamo poi dedicata alla lunga visita nell'immenso complesso del Potala Palace, divenuto la residenza del Dalai Lama a partire dal 5° e fino all'attuale Tenzin Gyatso (14° Dalai Lama) e al 1959, anno della sua fuga in India.
Il complesso è imponente e suggestivo, anche se si percepisce il suo carattere per lo più di memoriale in quanto manca la percezione di una vita vissuta quotidiana al suo interno, come invece è caratteristico in altre strutture. L'ingresso è controllato con accesso limitato dopo avere preacquistato il biglietto con l'orario della visita che durerà al massimo un'ora e per varcare la soglia bisogna essere lì almeno mezz'ora prima dell'orario stabilito e vanno presentati visto e passaporti da parte della guida (sono ammesse meno di 3000 persone al giorno). Il percorso prevede una serie di lunghe scalinate che ci fanno raggiungere, con discreta fatica, la vera e propria porta d'ingresso al palazzo bianco e quindi agli ultimi tre piani del palazzo rosso, che sorge sulla sommità del precedente. Dal tetto, dal quale si può beneficiare di una splendida vista su tutta la vallata della capitale, il percorso all'interno prosegue in discesa e ci porta di stanza in stanza ad uscire dalla parte posteriore.
Da menzionare, nella Cappella Occidentale del Palazzo Rosso, l'enorme stupa centrale di legno di sandalo ricoperto di oro e pietre (circa 4 kg di oro e più di 18000 perle e gioielli e di circa 15 m di altezza) che contiene il corpo mummificato del quinto Dalai Lama.
All'uscita dal palazzo ci sono tante donne tibetane con i loro bambini che, per pochi spiccioli, in cinque minuti sapranno riempirti la testa di piccole e colorate trecce e farti sembrare una di loro....(provare per credere...io ovviamente l'ho fatto!!!).
Nel tardo pomeriggio siamo partiti con il nostro pulmino alla volta del Lago Namtso e dopo circa 4 ore di guida su di una splendida e panoramica strada di saliscendi tra le meravigliose formazioni dell'altopiano, in serata, abbiamo raggiunto la destinazione. Cena ottima e abbondante nella prima vera "guesthouse di montagna": accogliente ma molto spartana, come in realtà mi aspettavo, sorgeva sulla riva del lago ed era costituita da una ampia costruzione con grande sala comune e camerate tutte intorno; all'esterno latrine divise per donne e uomini senza lavabi (lavaggio viso e igiene intima con salviettine imbevute e lavaggio denti con bottiglietta d'acqua). La temperatura esterna era di 9-10°, molto umida, ma all'interno c'era un buon riscaldamento e un'ottima pulizia. La notte in sacco a pelo in camerata da 5 per me è stata leggermente faticosa: pur avendo iniziato la terapia farmacologica (Acetazolamide- Diamox- 250 mg 1/2 cp 2 volte al dì) dal primo giorno in terra tibetana, i 5300 mt del lago Namtso sono stati la prima tappa a quote veramente elevate e l'acclimatamento un minimo si è fatto sentire con mal di testa e un po' di insonnia...ma nulla di insopportabile...dalla mattina seguente e fino alla fine del viaggio non ho avuto più alcun fastidio!
GIORNO 4: colazione "magra" a base di toast all'uovo e caffè latte (ma nel corso del viaggio ho imparato ad apprezzarla e spesso l'ho intensamente desiderata...soprattutto quando a colazione mi proponevano i noodles in brodo!!!). Abbiamo dedicato un paio d'ore all'area: prima la risalita del promontorio per ammirare l'immenso lago sacro salato in tutto il suo malinconico e cristallizzato splendore (è veramente immenso, a perdita d'occhio....è il 2° lago salato più grande di tutta la Cina); poi la visita del complesso del TashiDor con i suoi monasteri costruiti nelle grotte (dove amava pregare il Padma Shambhava, fondatore della setta dei "berretti gialli") e della spiaggia colorata dagli articoli venduti dagli indigeni (collane, bracciali, bandierine, sassi del lago, etc...) e dai grossi e pelosi Yak, i buoi tibetani abbelliti per ottenere denaro in cambio di foto o passeggiate con loro.
Nel pomeriggio, durante il rientro verso Lhasa, abbiamo fatto una deviazione di circa 30 km tra andata e ritorno su una strada di mezza-montagna con tante famiglie che sostavano nei prati adiacenti a fare picnic e abbiamo visitato il Monastero di Tshurpu, sede della setta dei "berretti neri", che amano praticare yoga, riti magici ed esorcismi; infatti il monastero era ricco di teschi di animali (yak antilopi o caproni) con offerte in denaro all'interno degli occhi della bocca o delle orecchie.
In serata siamo rientrati a Lhasa e....dopo un'ora e mezzo e quasi 8 km a piedi di deviazioni e giri a vuoto per la città (ci siamo un po' persi per tornare a piedi nel Barkhor), per la cena abbiamo scelto Lhasa Kitchen, ristorante senza infamia e senza lode proprio di fronte alla piazza del Jokahang.
GIORNO 5: ripartiti sul nostro pulmino, abbiamo lasciato la capitale in direzione sudovest verso Gyantse. E' stata la giornata dei grandi passi montani.
La strada a tornanti ci ha offerto meravigliosi panorami: la prima sosta è stata su un piccolo sperone roccioso dove abbiamo potuto ammirare i bellissimi mastini tibetani dal pelo rigonfio liscio e abbondante che erano "vestiti a festa" per le foto di rito, ovviamente a pagamento, con i turisti. Quindi abbiamo raggiunto il Kamba La Pass a 4710 mt di altezza, dal quale si gode una splendida vista del Yamdrok Tso, il lago scorpione, il secondo lago sacro dopo Nam Tso (Tso in tibetano significa Lago) che deve il nome proprio alla sua forma che ricorda quella dell'aracnide. Quindi ancora più su fino al Karo La Pass, a 5039 mt di altezza, che sorge alle pendici dell'imponente ghiacciaio la cui vetta raggiunge i 7191 mt. Da lì abbiamo iniziato a ridiscendere attraverso l'altopiano verde e giallo dei campi di colza fino a Simu La Pass, all'incrocio di 3 fiumi, e quindi alla vallata piena di basse case tibetane fatte di mattoni grigi chiari e scuri, pareti rosse ed escrementi di Yak ad essiccare sulle mura.
Giunti al Monastero di Pelkor Chode, in restauro, con diversi piani da risalire e tante cappelle da visitare, abbiamo ammirato i tanti lavoratori che nei momenti di pausa cantavano un mantra battendo il tempo contro le mura del monastero. La struttura accoglie lo stupa più grande del Tibet, il Kumbum, e, di fronte alla struttura, sorge il Dzong, un forte sulla collina rocciosa circondata da mura e non visitabile. In serata abbiamo raggiunto Gyantse (cena al Gyantse Kitchen).
GIORNO 6: la mattina abbiamo visitato il Monastero di Shalu dove, finalmente, abbiamo potuto ammirare i monaci pregare. Quindi abbiamo raggiunto la città di Shigatse e abbiamo visitato il mercato tibetano. La visita al monastero di Tashilhunpo prevista per l'ora di pranzo purtroppo invece è saltata perché quella settimana c'erano festeggiamenti particolari per i tibetani e l'esercito aveva chiuso il monastero agli stranieri.
GIORNO 7: giornata trascorsa in un lungo trasferimento in pulmino, quasi 500 km in 10 ore circa, da Shigatse a Saga con pranzo al sacco con picnic sull'altopiano ammirando i piccoli cavalli selvatici tibetani. Abbiamo soggiornato al Brahmaputra Hotel, struttura che lascia molto a desiderare, ma la cittadina offriva poco di meglio...
GIORNO 8: altro lungo trasferimento da Saga al Lago Manasarov (lago vittorioso). il panorama era pervaso di tutte le tonalità dei marroni misti al rosso all'ocra e al beige del meraviglioso deserto sabbioso e roccioso dell'altopiano. Superato un altro passo (Mayumla Pass 5220 mt) siamo giunti al lago, incastonato tra le montagne innevate, con le sue acque di un blu intenso e le sue spiagge quasi bianche. Abbiamo visitato il Monastero di Chiu, che sorge sul promontorio e dalla cui sommità si gode una splendida vista del grande lago, da un lato, e della cima affascinante mistica ed innevata del Kailash, la montagna sacra del Tibet, dall'altro. Abbiamo pernottato in una guesthouse sulla falsa riga di quella del NamTso (latrine esterne, una piccola costruzione che fungeva da sala ristorante e tante altre piccole costruzioni in linea con le camerate) mentre la nostra guida ha trascorso diverse ore a Darchen per ottenere i visti necessari alla kora del monte Kailash che ci attendeva per i tre giorni seguenti.
GIORNO 9: KORA DEL MONTE KAILASH Primo Giorno. Il monte Kailash fa parte della catena hymalaiana ed è alto 6714 mt, è una montagna sacra all'Induismo, che la ritiene la residenza di Shiva, e al Buddismo, che la ritiene essere il centro dell'universo e dimora di Demchok, emanazione irata di Sakyamuni. Non è stata mai scalata proprio per questo motivo e dalla sua cima nascono 4 fiumi sacri: Indo (che va a nord verso il Pakistan), Brahmaputra (che va verso Lhasa a est e poi a sud verso l'India), Sutlej (verso Guge a ovest e poi in'India) e Karnali, quest'ultimo è affluente del Gange (che va a sud verso l'India). Le sue quattro pareti a strapiombo sono rivolte verso i quattro punti cardinali e sul versante meridionale si apre un famoso lungo crepaccio verticale caratterizzato, nel punto mediano, da una linea orizzontale di strati rocciosi. Questa specie di cicatrice somiglia alla svastica buddista, con i bracci orizzontali e verticali, che è il simbolo di forza spirituale.
Il nome Kailash significa “cristallo".
Tibetani e Indiani ritengono che compiere almeno una volta nella vita la Kora (giro) della montagna sacra purifichi da tutti i peccati, mentre per raggiungere l'estasi bisognerebbe compierla 108 volte in una vita. La Kora è lunga 54 km e va percorsa in senso orario. Ha inizio poco fuori la cittadina di Darchen. Gli induisti di solito la compiono in un solo giorno, dall'alba al tramonto; chi la compie con continue prostazioni può impiegare circa 1 settimana. I turisti di solito la compiono in 3 gg, a piedi o a cavallo. Sono 3 gg intensi e serve spirito d’avventura, tanta capacità di adattamento (le guesthouse sono fatiscenti, per chi si organizza in proprio forse è meglio dormire in tenda) e una discreta condizione fisica.
Lasciato il pulmino, abbiamo affrontato, con i nostri pesanti borsoni in spalla, il faticoso sentiero sterrato in falso piano. Sono stati 5 km davvero impegnativi e spossanti, a causa del gran peso sulle spalle, ma finalmente, giunti a Tarboche, abbiamo trovato gli yak ad attenderci. Caricati i borsoni sul dorso dei poveri yak, abbiamo lasciato che partissero alla volta della nostra guesthouse a Drira Puk e noi abbiamo intrapreso, a passo certamente meno spedito, la nostra kora a piedi. La prima giornata ci ha visto percorrere circa 20 km in 8 ore (dalle 11 alle 19 circa), il sentiero era largo e dalle facili pendenze e molto molto panoramico, costeggiando la bellissima vallata creata dal fiume Sutlej. Giunti alla prima tappa, grazie alla bellissima e tersa giornata di sole che ci ha accompagnato, si è aperta di fronte ai nostri occhi la mistica e affascinante cima squadrata e innevata della montagna sacra....semplicemente spettacolare...la posizione delle guesthouse era proprio alla base della parete nord, in una cornice veramente suggestiva e spirituale. In serata, abbiamo avuto ancora tempo per la visita del bellissimo Monastero di Drirapuk, incastonato tra le rocce a guardare la cima del Kailash: con la sua costruzione bianca e rossa e con i filari di stupa dorati davanti all'ingresso il colpo d'occhio era magnifico, nonostante il restauro in corso. Logisticamente la tappa si trova in una sistemazione splendida e avvolta da una atmosfera di pace estrema, peccato per la guesthouse che era veramente fatiscente.
GIORNO 10: KORA DEL MONTE KAILASH Secondo Giorno. Svegliati di buon mattino e caricati nuovamente i borsoni sugli yak, ci siamo avventurati verso la seconda parte di kora. Questa è stata senza ombra di dubbio la giornata che ho atteso e amato di più, il cui ricordo serberò nel cuore per tutta la mia vita. Questo viaggio e, soprattutto, il giro spirituale della montagna sacra con il suo valore di purificazione, in questo particolare momento della mia vita, hanno avuto un significato e un valore inestimabili. E il secondo giorno di kora è stato veramente un percorso di rinascita per me. Sono stati 22 km a piedi lunghi difficili ed intensi sia fisicamente che emotivamente. Li ho percorsi per lo più da sola, vista la mia condizione fisica che nella kora si è dimostrata ottimale e mi ha permesso di essere meno in difficoltà degli altri miei compagni di viaggio e di mantenere un passo costante e spedito, soprattutto nel primo tratto fino a raggiungere i 5630 mt del Drolma La Pass (che ho raggiunto una ventina di minuti prima degli altri). Durante questa fase di ascesa verso il passo il sentiero era stretto e ripido, a tratti solo accennato tra le rocce. Il tempo non è stato clemente, perché il freddo umido si è fatto sentire, e la pioggerellina, negli ultimi tratti ha lasciato posto ad una debole nevicata e ad un forte vento. Lungo il cammino ho incontrato tanti indiani che facevano il percorso per lo più a cavallo e tantissimi tibetani con le loro vesti colorate, le trecce e le acconciature più varie e i rosari di preghiera tra le mani, che recitavano tutti insieme e ad alta voce i loro mantra. Sarà stato il ritrovarmi da sola nel compiere il percorso, sarà stato il clima avverso con vento e neve, sarà stata la fatica fisica e il sentiero impervio, sarà stata la presenza di tanti anziani e bambini che con dedizione e perseveranza compievano il giro, sarà stato il rumore di sottofondo creato dai mantra, sarà stato il mio stato d'animo particolare in quelle settimane, sarà stato il potere spirituale della montagna sacra....non so cosa sia stato, ma sta di fatto, che...dopo che la mente, durante la risalita, è stata sommersa da tanti pensieri ed immagini del mio recente passato e della motivazione che mi aveva spinto ad intraprendere il viaggio; raggiunta la sommità del passo, seduta a riposare su una roccia, dopo la gran fatica, infagottata nel piumino nei guanti e nel cappuccio, sotto la nevicata, tra le bandierine colorate, incantata ad osservare i riti di preghiera di una famiglia tibetana che bruciava incenso recitando mantra e gettava sul passo su 360° foglietti di preghiera e lana di yak...bè, allora, proprio allora e solo allora, in un lungo e intenso momento, ho capito chi ero e cosa volevo dalla vita e mi sono sentita, veramente in pace...in pace col mondo e in pace con me stessa. Questa sensazione rimane vivida e reale nel mio corpo e nella mia mente ogni volta che torno con il ricordo a quel momento, mi ha permesso di comprendere appieno il significato del mantra "Om Mani Padme Hum" che amano recitare i buddisti: il sentiero della liberazione e del raggiungimento della purezza. Quel mio stato di tranquillità interiore, in un primo momento, mi ha completamente invasa e non mi ha neanche permesso di accorgermi subito di quanto il passo, nonostante sia il più alto al mondo raggiungibile a piedi tramite sentiero, nonostante sia aperto solo in estate a causa della tanta neve nelle altre stagioni e nonostante sorga su di una montagna sacra, era purtroppo sommerso di tanta tanta tantissima immondizia: bottiglie di plastica, buste, cartacce, contenitori dell'ossigeno portatile, veramente una discarica a cielo aperto tra le meraviglie del tetto del mondo. Che tristezza la dura realtà del turismo dei ricchi e irrispettosi "padroni di casa" dei tibetani: ho avuto diverse prove, durante il viaggio, della maleducata superbia del popolo cinese, ma durante la kora sono stati raggiunti i livelli più alti di mancanza di rispetto di un luogo sacro e delle tradizioni tibetane (le bombolette di ossigeno e le fialette di plastica di glucosio praticamente le usano solo loro durante il giro). Ahimè tutta quella sporcizia non riuscirà mai ad essere rimossa, perché non ci sarebbero yak e cavalli a sufficienza. Mi dispiace ammetterlo, ma andrebbe limitato di più l'accesso dei turisti alla kora e questi dovrebbero essere controllati a vista durante il percorso.
Comunque, riprendiamo la descrizione del percorso. Superato il passo il sentiero prosegue in discesa e, sebbene, ancora lungo si fa più piacevole. Superati un lago e un nevaio, siamo entrati nella seconda panoramica vallata scavata dal fiume, e nel tardo pomeriggio abbiamo raggiunto, stanchi ma appagati, Zutrul Puk dove abbiamo cenato e dormito nella pulita calda ed accogliente guest house dei monaci che sorge sulla sommità del costone roccioso.
GIORNO 11: KORA DEL MONTE KAILASH Terzo Giorno. Questa è stata la tappa più breve e meno impegnativa della kora, 8 km e 3-4 ore di cammino su ampio sentiero di saliscendi, fino a raggiungere nuovamente Darchen. Negli ultimi km abbiamo incrociato tantissimi giovani che terminavano la kora con le tipiche prostrazioni fino a terra (le mani giunte in segno di preghiera con i pollici rivolti all'interno dei palmi vengono poste in ordine sulla testa sulla fronte sulla gola e infine sul cuore recitando i mantra e poi in posizione prona ci si sdraia completamente a terra, a quel punto ci si rialza e si ripete la serie come prima, più e più volte, avanzando lentamente.
I tibetani che fanno queste prostrazioni indossano una sorta di grembiule lungo fino ai piedi che protegge i vestiti e intorno alle mani e alle braccia hanno protezioni di legno imbottito, simili a guanti, che utilizzano per non farsi male e per agevolare il movimento mentre scivolano sul terreno.
A inizio pomeriggio siamo saliti nuovamente sul fidato pulmino alla volta di Gurugam, dove abbiamo visitato un piccolo monastero in restauro, mentre l'affascinante monastero a picco sulla cima di un promontorio, non era visitabile.
In ultimo ci siamo recati a Tirthapuri, centro "termale" dove le acque sulfuree, che sgorgano dal terreno roccioso argilloso dell'area, si gettano nel fiume sacro (nelle cui acque si bagnano i credenti). Abbiamo visitato un piccolo tempietto scavato nella roccia e all'esterno, subito di lato all'ingresso, dal terreno sgorgava una piccola pozza di acqua salata che i tibetani bevono e raccolgono poiché le danno un valore sacro e curativo.
In serata abbiamo infine raggiunto Moincer: la guesthouse era mediocre e poco pulita, ma, aveva un pozzo nel piazzale e con coraggio, abbiamo utilizzato la gelida acqua del pozzo per farci un po' di igiene personale, visto che venivamo da 3 giorni di neve vento sudore stanchezza e polvere. La cena e la successiva colazione sono state ottime nel piccolo ristorantino proprio di fronte alla nostra guesthouse, gestito da un'accogliente famiglia tibetana, con due bambine proprio dolci e carine.
GIORNO 12: partenza in direzione sudovest, verso la zona più arida e calda del Tibet. La strada anche questa volta è stata bellissima...un saliscendi continuo tra vallate scavate dai fiumi incastonate tra filari di speroni rocciosi dall'aspetto marziano, un panorama veramente da mozzare il fiato. Dal passo, a 5140 mt di altezza, abbiamo potuto ammirare in tutto il suo splendore, la mistica Valle di Zanda. Le rocce argillose affiorano dai canyon come campanili (sembra di stare nelle montagne rocciose). Arrivati a fondo valle abbiamo visto l'esterno delle Donggar Caves (erano chiuse) e poi siamo riusciti a visitare le splendide Piyang Caves, dove un'anziana signora un po' ingobbita e dalle lunghissime trecce, ci ha condotto fino al monastero in cima alle numerose scale.
Dall'alto il paesaggio ha senza dubbio un aspetto extraterrestre con gli speroni rocciosi, i canyon e i km e km di terra rossa. Nel pomeriggio siamo arrivati nella cittadina di Zhada e abbiamo visitato il Monastero di Tholing che è un cantiere a cielo aperto poiché quasi interamente distrutto 40 aa fa. Di lato al monastero, c'era un piccolo parco con tanti gazebi dove una signora ci ha cucinato patate fritte al peperoncino accompagnate da un buon boccale di birra. A Zhada, finalmente, dopo 4 giorni mi sono potuta fare una doccia! Quindi abbiamo tentato la cena nel locale tipico dove producevano solo i ravioli di carne, i momo: purtroppo si sono rivelati immangiabili con quel forte e, per me nauseabondo sapore di montone. Abbiamo dormito all' Hotel Khim Tsang di fronte all'ingresso del monastero.
GIORNO 13: partenza da Zhada di buon mattino in direzione del Regno di Guge. Dopo 20 km circa e 40 minuti di trasferimento siamo arrivati nella città di Tsaparang, capitale dell'antico regno.
Il colpo d'occhio è stato semplicemente meraviglioso!
Una serie interminabile di grotte scavate nella terra rossa argillosa, con piccole sale di preghiera sparse nella risalita verso la cima del costone roccioso, sulla cui sommità svetta il monastero, che sorge arroccato in posizione privilegiata e protetta a sorvegliare tutto il canyon circostante.
Le scale sono tante, vi sono diversi tratti scavati letteralmente nella roccia come cunicoli ed alcuni passaggi sono un po' esposti, quindi la risalita potrebbe essere difficile per chi soffre di claustrofobia o vertigini.
Ma vi garantisco che la fatica vale la spettacolare vista che si gode dall'alto: km e km di canyon, campanili rocciosi e promontori pieni di grotte a perdita d'occhio, il paesaggio non ha nulla da invidiare a quello dei canyon americani.
Il paesaggio è arido e desertico, l'atmosfera è mistica, ci si sente veramente vicini al cielo e al divino (accade un po' in tutto il Tibet, ma sul Kailash e in questo Regno la sensazione è certamente più radicata).
Purtroppo, come in tante altre zone in Tibet, quasi tutto è stato distrutto prima e saccheggiato poi dai cinesi e da ladri senza scrupoli che come turisti si avvicinano ai luoghi di culto e di interesse e raccolgono informazioni e poi organizzano furti su commissione di parti di statue o altro.
Nel pomeriggio siamo rientrati verso Darchen e abbiamo preso la camera nel Lana Hotel.
Prima di cena abbiamo concluso la serata facendo shopping nei tanti negozietti di souvenir che sorgono lungo l'unica strada principale della piccola e spettrale cittadine alle pendici della montagna sacra.
GIORNO 14: lunga giornata di trasferimento verso Saga. Unica sosta al lago Manasarov tramite un ingresso secondario per raggiungere le acque più facilmente (la guida e l'autista hanno riempito alcune bottiglie con l'acqua santa del lago da riportare alle famiglie). Nell'attesa abbiamo visitato il piccolo monastero dell'elefante ubriaco con il suo piccolo stupa. Il paesaggio era veramente spettacolare con quell'atmosfera un po' tetra fornita dalla nebbiolina che donava a tutto un colore un po' sbiadito e sfumato tra le diverse tonalità del bianco del giallo e dell'azzurro...peccato però che tutta l'area era infestata da mosquitos giganti!
GIORNO 15: in marcia verso il vero e proprio "Tetto del Mondo". Attraverso alcuni passi montani e la meravigliosa strada ricca di tornanti e colpi d'occhio strabilianti sull'altopiano e l'imponente catena himalaiana, abbiamo superato il cancello dell'Ingresso Nord nel Parco Nazionale del Quomolangma (il nome tibetano per il monte Everest 8848 mt, la montagna più alta al mondo).
Per il tardo pomeriggio, immersi tra le nuvole piene di pioggia, abbiamo visitato il piccolo ed un po' deludente Monastero di Rong Pu (il monastero più alto al mondo) e poi abbiamo raggiunto il Campo Base dell'Everest, distante 5 minuti in auto dal monastero, dove abbiamo preso posto nella tenda tibetana che ci era stata assegnata. Il Campo Base Everest è stato proprio una delusione...una quarantina di tende tibetane e tanti tanti pulmini o 4x4 parcheggiati in uno spiazzo...nulla in più.
La notte nella tenda tibetana però è stata comunque una bella esperienza: dormire in sacco a pelo riscaldati dalle calde e colorate coperte tibetane e dalla stufa tipica che è al centro della tenda è stata un'esperienza irripetibile e un bellissimo momento conviviale e di unione...peccato che insieme a noi c'erano solamente adolescenti cinesi con i professori che non erano per nulla di compagnia non conoscendo neanche una parola di inglese. Sono stati solo in grado di parlare fino a tardi, giocare con gli smartphone, respirare nella mascherina con l'ossigeno e rischiare alla fine pure di intossicarci per aver affumicato la tenda togliendo il bollitore con l'acqua dal buco sopra la stufa (i due buchi della stufa tibetana vanno coperti con le grosse teiere piene di acqua per avere sempre acqua bollente per i noodles e per il tè tibetano e per creare nel contempo un circuito chiuso e far sì che il fumo esca dal comignolo sul tetto fuori dalla tenda; se uno dei due buchi resta aperto per aver tolto la pentola da sopra, il fumo rientra nella tenda...). Informazione di servizio: le latrine comuni sono a pagamento (1 YUAN), io ho utilizzato il terreno roccioso all'esterno dell'area...
GIORNO 16: Colazione con ottimi pancakes fatti dalla gentile signora tibetana che gestiva la tenda. Verso le 8:30 dopo essere stati in fila al freddo per una decina di minuti, abbiamo preso il pulmino che fa la spola ogni mezz'ora circa per raggiungere il punto di osservazione della cima dell'Everest.
Sono circa 4 km di strada privata sterrata e in un quarto d'ora si raggiunge uno spiazzo con la pietra che indica che si è al Campo Base dell'Everest, punto di partenza per le escursioni alpinistiche (5200 mt QOMOLANGMA BASE CAMP). Ottenere una foto di rito di lato alla pietra è stata una vera e propria conquista visti i tanti gruppi di turisti cinesi e indiani che non lasciavano libero lo spazio.
Da lì si risale una collinetta piena di bandierine tibetane che sorge proprio di fronte alla parete nord dell'Everest. Nelle giornate di sole è possibile ammirare la cima innevata, noi, purtroppo, non siamo stati così fortunati e quella mattina la pioggerellina mista a neve e le nuvole basse ci hanno permesso solamente di immaginare la cima innevata dietro alle nubi...ma essere lì per me è stato comunque un gran traguardo!
Dopo un'ora circa abbiamo iniziato il viaggio di rientro in valle, ma, poco dopo aver superato il Monastero di Rong Pu, ci siamo fermati perché una corriera di linea (di quelle che portano tibetani e turisti al campo base dal fondo valle) era uscita di strada su un curvone a causa del fondo stradale bagnato e si era ribaltata di lato sullo spiazzo adiacente alla strada (per fortuna era in un tratto non esposto, altrimenti rischiava di finire di sotto!).
C'erano bagagli ovunque e gente sbalzata fuori dal pulmino, circa una ventina di persone tra le quali una metà di loro era ferita più o meno gravemente. In quel momento ho bloccato il pulmino e ho deciso, a scapito del gruppo del viaggio e della nostra tabella di marcia, di scendere e dare una mano facendo almeno un triage dei feriti.
Da "bravo" medico avevo portato con me tutto il necessario per un primo soccorso efficace e non ho potuto far finta di nulla.
Nei giorni precedenti il peso del mio zaino e il quantitativo di cose che conteneva era stato motivo di simpatico sbeffeggio da parte dei miei compagni di viaggio...ma alla fine tutto si è rivelato molto utile: ho lasciato garze sterili, bende, cerotti e steril strip, ghiaccio istantaneo, iodopovidone per disinfettare le ferite, antidolorifici e avevo forbici per tagliare i vestiti di un paio di donne tibetane che facevano fatica a respirare e per controllare che non avessero ferite gravi o fratture esposte (le donne tibetane hanno stoffe avvolte più volte intorno al torace e tanti strati di maglie addosso). Mi sono sentita veramente utile, nonostante non abbia fatto poi così tanto se non rassicurare, medicare, immobilizzare un paio di donne nel sospetto di lesioni alla colonna, mettere al caldo altre in attesa dei soccorsi.
Sono stata accolta e ringraziata da tutti come se avessi fatto un miracolo, solo per aver distribuito qualche garza e aver controllato alcuni di loro.
Questo è ciò che amo di più del mio lavoro.
Comunque mi ha stupito il fatto che nella corriera non c'era neanche una piccola scatola di primo soccorso e che, del resto, neanche la nostra guida aveva qualcosa di simile nel pulmino; inoltre, i tibetani che mi aiutavano nella traduzione ai feriti dall'inglese alla loro lingua, mi spiegavano che non è previsto soccorso in elicottero in Tibet, poiché quest'ultimo è riservato solo all'esercito cinese, e che l'ambulanza era stata chiamata ma avrebbe impiegato almeno un paio d'ore ad arrivare e poi l'ospedale più vicino sarebbe stato quello a Shigatze e sinceramente non so se fosse fornito di almeno ecografia e rx per controllare fratture e lesioni interne.
Insomma, di certo se accade qualcosa di brutto in quelle aree, non credo che ci sia assicurazione medica che tenga. Per tutte le cose minori, meglio partire sempre ben equipaggiati con medicinali e tutto il necessario per il primo soccorso, perché nei luoghi sperduti dell'altopiano non c'è nulla, pochi si intendono di medicina (anche perché va molto anche la medicina alternativa cinese) e anche nei centri grandi le farmacie hanno farmaci cinesi poco sicuri e conosciuti, quindi meglio portarsi le cose da casa.
Comunque, dopo un'ora di triage, ho salutato i feriti e gli aiuti e ci siamo rimessi in movimento verso Shigatze: il paesaggio era ancora diverso e ancora più bello rispetto al giorno precedente, perché la notte era nevicato e tutto era ricoperto da un manto candido e bianco che dava un aspetto onirico all'altopiano.
Nel pomeriggio, abbiamo fatto una sosta al Monastero di Sakya: in parte ancora distrutto e in parte ricostruito, è formato da una zona vecchia sul costone collinare con il college maschile dei monaci e tante abitazioni ancora tra le macerie e una parte centrale nella vallata antistante che ospita il palazzo principale ed è tutta ricostruita con negozi e abitazioni nuove.
Giunti a Shigatze, la guida e l'autista ci hanno voluto far provare il loro "Mc Donald's" che si chiama DIGOS e vende solo panini con il pollo, bibite similari alla coca cola e patate fritte (no carne di mucca o alcolici).
GIORNO 17: visita al grande Monastero di Tashilhunpo, che avevamo trovato interdetto ai turisti stranieri all'andata. La struttura ospita il più grande Buddha del futuro (Maitreya), definito anche il Buddha dell'amore (è stata l'unica statua dove ho lasciato 1 YUAN in offerta!). Tutte le cappelle erano piene di mandala, statue e pellegrini che recitavano preghiere e mantra e suonavano le campane all'ingresso in segno di rispetto e buon auspicio.
Sulla strada di rientro a Lhasa, abbiamo quindi fatto le ultime due soste del nostro viaggio: la prima per la visita del piccolo Monastero di Drolma Lhakang (niente di particolare in effetti...) e la seconda per ammirare il Blue Buddha, murales colorato su una roccia (deludente anche questo perché lo immaginavo molto più grande e poi sorge di lato alla strada in una zona un po' abbandonata e fatiscente).
L'ultima serata prima del nostro rientro in Nepal e quindi in Italia, l'abbiamo conclusa nel nostro amato Mandala Restaurant, dove abbiamo cenato con naan, noodles e filetto di yak.
Sono stati circa 4500 km in auto in 18 giorni.
Il mattino il volo Sichuan Airlines ci ha riportato a Kathmandu con un'ora di ritardo (LINK al Viaggio in Nepal).
Tenzin Gyatso
INFO UTILI:
Viaggio "Sri Kailash TIBET" effettuato tramite il tour operator Viaggi Avventure nel Mondo
Costo finale e totale comprensivo di tutto (voli, pernotti, ingressi vari a monasteri laghi kora campo base, trasferimenti + benzina, autista e guida, souvenir): circa 4000 euro per 21 giorni di viaggio
Moneta ufficiale: YUAN ("Renminbi" Cinese, che significa "valuta del popolo")
1 YUAN cinese (CNY) = 0.14 euro (EUR)
1 EUR = 7.29 CNY
Lingua ufficiale: Cinese, ma nella regione tibetana i cartelli stradali spesso hanno la doppia lingua e ovviamente i tibetani parlano quasi solamente la loro lingua.
Per entrare nel paese, oltre al passaporto, bisogna ottenere un visto turistico e per ottenerlo bisogna organizzare il viaggio accompagnati da una guida autorizzata e con un programma di viaggio che va presentato per tempo al governo cinese che lo deve approvare. Non si potrà modificare il programma di viaggio o l'itinerario rispetto a quanto autorizzato.
Non servono vaccinazioni particolari.
Le strade sono buone e quasi tutte asfaltate ma piene di check point e controlli di velocità; l'inglese lo conoscono un po' tutti, ma quasi tutto è scritto in cinese, anche i nomi delle vie, i nomi dei monasteri o le indicazioni stradali (tranne quelle più importanti).
Il wifi è presente in molti ristoranti, alberghi o guesthouse; ma, prima di arrivare nel paese, va scaricata una App ( io ho utilizzato senza problemi VyprVPN) che permette di bypassare la censura cinese (che non permette di utilizzare facebook, twitter, whatsapp, etc...) in quanto ci si connette appoggiandosi a un server estero e così, pur trovandosi in Tibet, la connessione internet sembra avvenire in un'area al di fuori della Repubblica Popolare Cinese.
Non si possono fare foto dentro ai templi, se non in alcuni dopo aver pagato; non si possono fare foto dentro l'aeroporto o ai check point o ai militari.
Le bandierine tibetane non vanno scavalcate ma ci si passa sotto; i tibetani non amano indicare, ma al posto del nostro dito indice disteso, per farci vedere qualcosa, utilizzano il palmo della mano aperto e rivolto verso l'alto con le dita strette tra loro; dentro i templi si gira in senso orario; le sciarpe bianche e gialle nei monasteri si prendono dietro un piccolo pagamento e poi si offrono con un inchino a capo basso al monaco in segno di rispetto e preghiera; bisogna sempre chiedere prima di fotografare le persone e soprattutto donne e bambini.
STORIA DEL TIBET
I tibetani all'origine erano pastori nomadi; intorno al 100 a.C. le tribù iniziarono a coltivazione orzo e riso e divennero stanziali. Intorno al VII- VIII secolo venne introdotta una nuova scrittura e il buddismo. Si susseguirono periodiche invasioni da parte dei Mongoli, quindi nei 200 anni dagli inizi del 1700 agli inizi del 1900 il Tibet divenne una sorta di "protettorato" cinese. Fino al 1949 il Tibet, però, è rimasto indipendente. Nel 1950 l’esercito della neonata Repubblica Popolare Cinese occupa il Tibet militarmente e successivamente, nel 1957, lo annette ai suoi territori. Il 10 marzo del 1959 il popolo tibetano tenta la rivolta contro l’occupazione, ma la sommossa viene soffocata nel sangue e culmina nella fuga del Dalai Lama. Un quinto della popolazione, un milione e duecentomila tibetani, sono morti durante l’occupazione cinese, migliaia di dissidenti e prigionieri per motivi religiosi sono stati costretti al lavoro forzato nei laogai.
QUESTIONE TIBETANA (fonte: dizionario di storia Treccani)
Controversia relativa all’indipendenza del Tibet, nella quale le posizioni dei tibetani si contrappongono a quelle della Repubblica popolare cinese. La questione tibetana nasce, in termini di problema internazionale, molto prima della fuga in India del XIV Dalai Lama nel 1959.
In seguito all’invasione del 7 ottobre 1950 dell’Esercito popolare di liberazione ai comandi del generale Zhang Guoha, l’Assemblea nazionale tibetana (Tshongdu) decise di far assumere i pieni poteri al Dalai Lama, allora quindicenne.
Per misura cautelativa il giovane Tenzin Gyatso si recò nella valle di Chumbi (confine indiano) dove, insieme al suo governo, svolse un’intensa attività diplomatica con tutte le parti in causa: India, Cina, Gran Bretagna e USA.
Con l’invio di un appello alle Nazioni Unite per la prima volta si poneva sul tappeto internazionale il problema del Tibet (7 novembre 1950).
Nei seguenti cinquant’anni il dibattito sulla questione tibetana si è svolto sulla base di due opposti punti di vista: per il primo, il Tibet era uno Stato di fatto indipendente (proclama del XIII dalai lama) conquistato militarmente dai comunisti cinesi, mentre per il secondo, il Tibet è un Paese che appartiene tradizionalmente alla Cina, addirittura fin dai tempi della dinastia Yuan (1270- 1368). Quando nell’ottobre 1949 i comunisti cinesi presero il potere, dichiararono subito di considerare il Tibet parte inalienabile della Cina, così come avevano fatto Yuan Shikai (1859-1916), Sun Zhonshan (1866-1925 ), e Jiang Jieshi (1887-1975).
Il 1 novembre 1950 la Repubblica del Salvador chiese che si discutesse la questione tibetana davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma il 4 novembre la questione fu aggiornata sine die. Una seconda richiesta presentata il 1 dicembre dal governo tibetano perché gli USA sostenessero l’appello dei tibetani alle Nazioni Unite non fu presa in considerazione per l’opposizione del governo indiano e il mancato sostegno dell’Inghilterra. Il 23 maggio 1951 si arrivò all’Accordo detto in 17 punti secondo il quale la Cina, pur riconoscendo la speciale posizione autonoma del Tibet, stabiliva che il Paese era parte integrante della Repubblica popolare cinese.
Soltanto il 20 dicembre 1961 l’Assemblea generale delle Nazioni unite mise in agenda la discussione sulla questione tibetana. Fu approvata una risoluzione favorevole al principio dell’autodeterminazione per il popolo tibetano con 56 voti a favore, 11 contrari e 29 astenuti. La risoluzione non ebbe alcun effetto.
Il 6 settembre 1965 la Regione autonoma del Tibet (RAT) fu ufficialmente inaugurata: territorialmente comprendeva solo il Tibet centrale e occidentale, mentre Kham e Amdo furono incorporati nelle province cinesi Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan. Una seconda risoluzione a favore del popolo tibetano fu votata nella XX Assemblea delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1965, con 43 voti favorevoli, 26 contrari e 22 astenuti.
La Rivoluzione culturale cinese (1966 -76) determinò numerose rivolte del popolo tibetano, che continuarono anche negli anni Ottanta, nonostante una politica meno dura venisse adottata dal PCC, in particolare a opera di Hu Yaobang (1915-89). Le sollevazioni degli anni 1987-89 terminarono con l’imposizione della legge marziale e la questione tibetana fu di nuovo all’attenzione del dibattito internazionale. Tra il 1987 e il 1992 ci furono da parte del Congresso statunitense otto risoluzioni e sei disegni di legge che condussero alla formulazione del Foreign relations authorization act (1991), in cui si proclamava che il Tibet era un Paese occupato illegalmente e si invitavano i dirigenti cinesi al rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli. Nel corso del tempo i termini della questione tibetana si sono spostati dal problema dell’indipendenza a quello dei diritti umani (rapporti della Commissione internazionale dei giuristi di Ginevra: 1959, 1997); il governo cinese, dal canto suo, afferma che l’appartenenza del Tibet alla Cina ha consentito passi avanti significativi nella condizione delle donne e nel superamento di un regime patriarcale egemonizzato dalle autorità religiose. Negli ultimi trent’anni la politica cinese in Tibet si è focalizzata sullo sviluppo economico del Paese (xibu da kaifa) e in questa prospettiva si sono svolti quattro work forum (1980, 1984, 1994, 2001). Le dimostrazioni anticinesi che hanno avuto luogo in tutto il mondo durante lo svolgersi delle olimpiadi di Pechino (2008) hanno evidenziato come la questione tibetana sia ancora irrisolta.
Considerazioni finali e personali sulla "Questione Tibetana":
Il Tibet è un paese meraviglioso, permeato di natura e spiritualità; il popolo tibetano è umile gioviale e semplice e meriterebbe l'attenzione dell'occidente.
Mi hanno raccontato delle centinaia di monasteri distrutti e delle centinaia di migliaia di morti. Il governo cinese ha favorito il trasferimento in Tibet di coloni cinesi e sono state fatte campagne di sterilizzazioni delle donne in età fertile e di aborti forzati per evitare che il popolo tibetano divenga troppo numeroso e rappresenti un pericolo interno. Il pacifico e vasto altopiano tibetano sembra una base militare. L'influenza della dittatura cinese si respira in ogni momento e in ogni luogo: le bandiere della repubblica popolare cinese sventolano ovunque, sulle strade è un continuo check point dei militari cinesi che con poco garbo effettuano controlli più o meno accurati, ogni monastero è pieno di telecamere per controllare i movimenti e gli atteggiamenti dei tibetani; bisogna fare attenzione a come e di cosa si parla; i turisti cinesi sono irrispettosi delle tradizioni e dei luoghi di culto dei tibetani (scavalcano o strappano le bandierine di preghiera, gettano rifiuti ovunque, non si adeguano alle tradizioni dei tibetani nella LORO terra); il governo cinese in maniera dittatoriale ha eliminato ogni bandiera del Tibet e ogni immagine del Dalai Lama; i monaci sono stati "comprati" con il denaro cinese, in quanto vengono stipendiati, molti di loro hanno perso di vista il percorso spirituale e molti altri sono falsi monaci; è vietato l’insegnamento della storia del paese e del buddismo e non c’e’ nessuna libertà religiosa; non c'è libertà di espressione o parola e la stampa la tv e internet sono controllati (noi andavamo in internet tramite programmi che ci permettevano di bypassare il blocco cinese poiché risultava la connessione a un server estero); la spiritualità del buddismo e l'influenza dell'insegnamento del Dalai Lama si sentono sempre meno. La millenaria cultura tibetana sta sparendo.
Ci sono numerose miniere di uranio dove lavorano quasi esclusivamente operai tibetani e basi nucleari con la popolazione esposta all’inquinamento radioattivo come tutte le coltivazioni e gli allevamenti che sono le uniche fonti di sostentamento dei contadini tibetani. Il controllo dei grandi fiumi, la deforestazione forzata, l’inquinamento cinese stanno cerando grave danno all'ecosistema e a tutto il continente asiatico.
I tibetani guardano ai turisti con speranza, non con disprezzo: è vero che andando in Tibet si finanzia il governo cinese, ma è vero anche, che almeno grazie al turismo la "questione tibetana" può essere raccontata agli occidentali, che la vivono anche sulla loro pelle durante il viaggio e in più, i tibetani possono sapere tante cose del mondo esterno ed essere leggermente più liberi perché hanno un lavoro e possono permettersi così una vita quasi normale, anche se sono prigionieri a casa loro, anche se non hanno un passaporto, non possono lasciare il paese e hanno molti meno diritti dei cinesi. Se non ci fosse neanche il turismo, loro sarebbero ancora più schiavi a casa loro. Il turismo potrebbe essere un'arma forte ed efficace per un Tibet di nuovo e finalmente libero, per sensibilizzare i potenti del mondo. Tutti noi occidentali dovremmo non smettere mai di parlare di quello che abbiamo visto e provato nel nostro viaggio, di come i tibetani siano un popolo altruista e dai sani principi, un popolo pacifico e pieno di voglia di riscatto, un popolo pervaso di spiritualità e sani principi. Per il resto, la nostra arma, come singole identità, potrebbe essere solamente quella di boicottare il governo cinese a livello economico nelle piccole grandi cose di ogni giorno, non comprando più prodotti cinesi e non usufruendo più dei loro servizi a basso costo. Mi indigno quando mi dicono "Perché sei andata in Tibet a finanziare i cinesi?" ma poi chi mi dice questo va nel centro massaggi in fondo alla strada o a farsi la tinta nel quartiere cinese o a compare scarpe o vestiti al mercato o a farsi aggiustare il display dello smartphone da loro.
I tibetani guardano ai turisti con speranza, non con disprezzo: è vero che andando in Tibet si finanzia il governo cinese, ma è vero anche, che almeno grazie al turismo la "questione tibetana" può essere raccontata agli occidentali, che la vivono anche sulla loro pelle durante il viaggio e in più, i tibetani possono sapere tante cose del mondo esterno ed essere leggermente più liberi perché hanno un lavoro e possono permettersi così una vita quasi normale, anche se sono prigionieri a casa loro, anche se non hanno un passaporto, non possono lasciare il paese e hanno molti meno diritti dei cinesi. Se non ci fosse neanche il turismo, loro sarebbero ancora più schiavi a casa loro. Il turismo potrebbe essere un'arma forte ed efficace per un Tibet di nuovo e finalmente libero, per sensibilizzare i potenti del mondo. Tutti noi occidentali dovremmo non smettere mai di parlare di quello che abbiamo visto e provato nel nostro viaggio, di come i tibetani siano un popolo altruista e dai sani principi, un popolo pacifico e pieno di voglia di riscatto, un popolo pervaso di spiritualità e sani principi. Per il resto, la nostra arma, come singole identità, potrebbe essere solamente quella di boicottare il governo cinese a livello economico nelle piccole grandi cose di ogni giorno, non comprando più prodotti cinesi e non usufruendo più dei loro servizi a basso costo. Mi indigno quando mi dicono "Perché sei andata in Tibet a finanziare i cinesi?" ma poi chi mi dice questo va nel centro massaggi in fondo alla strada o a farsi la tinta nel quartiere cinese o a compare scarpe o vestiti al mercato o a farsi aggiustare il display dello smartphone da loro.
Chi finanzia di più il governo cinese e cosa toglie la libertà ai tibetani? Il mio unico viaggio in Tibet o il reiterato usufruire da parte dell'occidentale medio della scadente e sfruttatrice microeconomia cinese sia qui in Italia che nel resto del mondo democratico e civilizzato?
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